Sono reduce dall’inaugurazione di una mostra fotografica di scatti superlativi del maestro Salvatore Giglio. L’argomento oscilla tra il ricordo e l’eredità. Ricordo di “Un uomo, un capitano, un campione” dal nome di Gaetano Scirea, indimenticato ed indimenticabile “leggenda” degli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso; figura che ha scavalcato l’appartenenza alla storia della Juventus, per divenire patrimonio del calcio italiano.
Capitano degli azzurri campioni del mondo in Spagna, in un abbraccio che racchiuse come poche altre volte e con poche altre persone lo Stivale intero. Esempio di lealtà, di sportività, di correttezza in campo, come nella vita quotidiana, in un momento storico nel quale la differenza tra i calciatori ed i “comuni mortali” era davvero irrisoria. Uomo, prima che campione, fuoriclasse nella semplicità e nelle difficoltà, fedele ai proprio valori anche nel successo e nella celebrità, valori appresi in famiglia e letti tra le rughe dei volti di una famiglia di emigrati operai.
Posso assicurare di avere trascorso 2 ore di “pace in terra”. Tra grandi giornalisti di spessore, vecchi e gloriosi juventini, compagni di Scirea in campo e nell’amicizia coltivata fuori, autentici testimoni di un calcio che ha modellato la passione che mi ha accompagnato attraverso l’adolescenza ed oltre, la concreta e garbata amicizia reciproca con Mariella. Ho pensato davvero per alcuni attimi che il calcio sia un fenomeno che ci accomuna.
L’idillio ahimè dura meno di un giorno, perché quello era il mondo vero del pallone di cuoio. Maledetto me, che non abdico al mio idealismo. Costretto per fare cronaca a buttare nel cestino le nozioni di tecnica calcistica e anni di studio tattico, quella amorfa e ripugnate materia di cui sono fatti i rapporti umani odierni mi insozza di furbate studiate attentamente per organizzare come “fregare” le regole, se fa comodo. E la danza macabra di cadaveri “dentro”, agitati dal vento del “menefotto”, ha inizio. Affresco già ammirato a Clusone, con la differenza che qui non si danza perché morti, ma per un falso delirio di immunità presunta.
Invidio i giovani, perché non hanno memoria, immuni dalla sofferenza iniettata nelle vene dal confronto con i valori veri e la fuffaglia di oggi giorno. Li invidio, perché non hanno da stabilire che cosa sia giusto o che cosa sia sbagliato. Basta loro uscire di casa ed annusare l’aria, perché ciò che è bianco oggi potrebbe essere nero domani e per quanto tempo non è dato sapere.
La legge dice che posso fare quello che voglio fino a quando e quanto mi pare. Questo significa essere al passo con i tempi. Sottoscrivo un regolamento e lo ritengo valido fino a quando ho un tornaconto, altrimenti arrangiatevi.
Ho davanti ai miei occhi lo sguardo sereno, pulito e concreto di Gaetano, con la tuta d’allenamento, la divisa a strisce bianconere, con l’abito di Babbo Natale per far divertire il figlio in famiglia e lo confronto con le maschere squallide, malmostose, livorose che sarebbero state prese a calci anche sulle povere tavole di scena della Commedia dell’Arte e che si aggirano torve attorno al capezzale del calcio moribondo. Che rabbia e che tristezza.
Marco SANFELICI